Si fa sempre più concreta la possibilità che alcune società asiatiche abbandonino la piazza di New York. Perché e con quali effetti?
Quando si parla di borsa, spesso, di mezzo non c’è solo la borsa. Il mercato si muove anche in base alle norme degli enti che lo regolano e alle scelte dei Paesi d’origine delle società. Intrecciando questi fili, si può capire l’agitazione che in questi mesi sta caratterizzando le compagnie cinesi quotate negli Stati Uniti. Che cosa sta succedendo? Il punto di partenza è una parola: delisting.
Che cos’è il delisting
Quando una società si quota, accede a un listino azionario. Può capitare, per scelta o per necessità, di fare anche il percorso inverso in cui viene rimosso un titolo da una singola piazza. Questo è il delisting: letteralmente “togliere dal listino”, ossia revocare la possibilità di partecipare agli scambi.
Il delisting è un’opzione sempre presente ma se ne parla con più insistenza in questo momento perché si trova al centro delle tensioni tra Cina e Stati Uniti.
Cosa sta succedendo tra USA e Cina sui mercati
Facciamo un passo indietro: alcune società cinesi, soprattutto quelle tecnologiche, si quotano sia in Asia (a Hong Kong) sia negli Stati Uniti. È una mossa che permette di accedere a due mercati distinti, facilitando la raccolta e la circolazione di capitali.
Nelle ultime settimane, le società cinesi che hanno adottato questa strategia si sono trovate strette tra due spinte che – pur in contrapposizione – rischiano di portare allo stesso risultato: il delisting, appunto.
Da una parte ci sono le autorità americane. La SEC, la commissione che regola i mercati statunitensi (l’equivalente della nostra Consob), spinge per una maggiore trasparenza. Tecnicamente, vuole ritoccare l’Holding Foreign Companies Accountable Act (Hfcaa). In pratica, punta a rendere più accessibili i dati contabili delle società straniere quotate in USA. Di fatto, un ritocco pensato per Cina e Hong Kong, visto che le altre giurisdizioni sono già aperte alle ispezioni della SEC.
Se le norme dovessero cambiare, le società cinesi potrebbero abbandonare New York. Un po’ per volontà propria e un po’ perché Pechino è contraria a una circolazione dei dati più chiara. La Cyberspace Administration of China, l’agenzia responsabile della sicurezza dei dati, ha già “invitato” Didi (la Uber cinese) a studiare un piano di delisting. Anche se rivolto a una sola società, il messaggio di Pechino è forte e chiaro, tanto da aver pesato sull’andamento dei titoli delle altre società tecnologiche cinesi quotate in USA.
Perché delisting è un rischio
Un eventuale delisting avrebbe delle conseguenze sia per gli investitori che per le compagnie. Uscire da un listino occidentale potrebbe rendere da una parte più farraginosa la raccolta di capitali e dall’altra più complicato investire nelle società coinvolte. Più complicato ma non impossibile: le azioni, non più reperibili sulle piazze americane, sarebbero scambiate sui mercati OTC (Over The Counter), meno regolati e meno liquidi, non coperti da tutti gli intermediari finanziari e caratterizzati da commissioni più elevate. In breve: dal punto di vista finanziario, il delisting non converrebbe a nessuno. Ma è chiaro che, in questo caso, sono in ballo interessi sovrani che vanno al di là del mercato.
Se questo è un rischio di prospettiva, ce n’è uno più immediato: le azioni delle società cinesi quotate negli Stati Uniti potrebbero perdere valore. Anche se il delisting di per sé non comporta una perdita, è fisiologico che, in presenza di informazioni allarmanti, il titolo tende a calare. Le notizie negative (e quindi le pressioni al ribasso) sono in questo caso duplici: da un lato gli investitori potrebbero correre alla vendita prima del delisting (con un impatto sul prezzo) o di una stretta regolatoria da parte della SEC; dall’altro l’abbandono delle piazze americane sarebbe il segnale di un riacutizzarsi delle tensioni tra USA e Cina. Uno status che certo non tranquillizzerebbe gli investitori.
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